Archivio di luglio 2008

Risoluzione del contratto

domenica 20 luglio 2008

La risoluzione del contratto equivale allo scioglimento dai vincoli del contratto. Può essere giudiziale, oppure di diritto. I presupposti della risoluzione giudiziale sono: a) l’adempimento di chi agisce in giudizio; b) l’inadempimento del contraente contro il quale si chiede la risoluzione; c) la domanda di risoluzione.

Se il creditore ha ancora interesse alla prestazione invece della risoluzione, chiederà l’adempimento del contratto al debitore; la domanda di adempimento non può essere fatta quando si è già chiesta la risoluzione, mentre si può chiedere la risoluzione quando si è già chiesto l’adempimento (art. 1453, 2° comma cod. civ.).

Il debitore, una volta presentata la domanda di risoluzione, non può più adempiere l’obbligazione (art. 1453, 3° comma cod. civ.).

Vi sono ipotesi determinate in cui non è necessario adire il tribunale per risolvere il contratto: la risoluzione opera automaticamente. Si tratta dei casi in cui vi è clausola risolutiva espressa, termine essenziale, diffida ad adempiere (risoluzione di diritto).

I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva quando una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite; in questo caso la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva (art. 1456 cod. civ.).

Il termine non sempre è essenziale, cioè necessario all’esecuzione del contratto per realizzare l’interesse creditorio, e pertanto non sempre costituisce un elemento rilevante del negozio e può essere meramente «ordinatorio», cioè indicare la scadenza dell’obbligazione, senza però comportare necessariamente l’inadempimento.

Il termine è essenziale quando lo definiscono espressamente come tale le stesse parti nel contratto, oppure risulta implicitamente dalla natura e dall’oggetto del contratto. Per evitare che il debitore esegua oltre il termine indicato, l’altra parte può intimare per iscritto all’inadempiente di adempiere in un congruo termine con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto si intenderà senz’altro risolto (ari. 1454 cod. civ.).

Il termine con il quale il creditore intima al debitore inadempiente di eseguire si chiama diffida e ha lo scopo di fissare con chiarezza la posizione delle parti nell’esecuzione del contratto; mette sull’avviso l’inadempiente che l’altra parte non è più disposta a tollerare il ritardo e che, se non esegue entro il termine indicato e assegnato (in aggiunta a quello già previsto dal contratto), il contratto si intenderà senz’altro risolto.

Il termine che è indicato nella diffida non può essere inferiore a 15 giorni; le parti però possono pattuire un periodo diverso (più o meno breve) o si possono seguire gli usi. E ovvio che il termine indicato nella diffida ha carattere essenziale.

Anche la risoluzione, come l’annullamento e la rescissione, ha effetto retroattivo: come la rescissione, e a differenza dell’annullamento, la risoluzione ha effetto solo tra le parti, e quindi la sua retroattività è meramente obbligatoria (ari. 1458 cod. civ.).

Si fanno salvi però gli effetti già prodotti dai contratti a esecuzione continuata o periodica, per i quali non si possono annullare le prestazioni già eseguite.

Nei contratti plurilaterali, l’inadempimento di una delle parti non comporta la risoluzione del contratto rispetto alle altre, a meno che la prestazione che è mancata si debba considerare, secondo le circostanze, essenziale (art. 1459 cod. civ.).

Può accadere che nel corso dell’esecuzione del contratto uno dei contraenti venga a conoscenza del dissesto dell’altro, o delle precarie condizioni in cui già si trovava prima della conclusione del contratto; in tal caso il giudice gli consente di cautelarsi, per non eseguire una prestazione di cui potrebbe anche non ricevere poi il corrispettivo: la cautela consiste nella facoltà di sospensione della prestazione (art. 1461 cod. civ.).

Le parti possono anche convenire che, nel corso dell’esecuzione, non proporranno eccezioni per evitare o ritardare la prestazione dovuta (clausola del solve et repete): tale clausola non vale per eccezioni relative a nullità, annullabilità, rescissione del contratto (art. 1462 cod. civ.).

Sono casi di risoluzione giudiziale l’inadempimento, l’impossibilità sopravvenuta e l’eccessiva onerosità.

Il codice considera l’impossibilità sopravvenuta come una delle cause di risoluzione, perché, se una delle prestazioni non si può più eseguire, l’altra parte non deve esser costretta a eseguire la propria o, se l’ha già eseguita, a veder perduto qualsiasi vantaggio dall’affare concluso; nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che è liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che ha già ricevuto (art. 1463 cod. civ.).

Il rapporto di corrispettività si salva anche se una delle prestazioni è soltanto parzialmente impossibile; in tal caso l’altra parte ha diritto a una riduzione corrispondente (art. 1464 cod. civ.).

Si prevede in questo caso anche un’ipotesi di recesso legale (art. 1464 cod. civ.): l’altra parte può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

Il principio secondo il quale il perimento della cosa per una causa non imputabile al debitore lo libera dall’obbligazione (art. 1218 cod. civ.) non vale per contratti traslativi costitutivi di diritti reali.

In queste ipotesi il perimento della cosa non libera l’acquirente dall’obbligo di eseguire la controprestazione, ancorché la cosa non gli sia stata consegnata (art. 1465 cod. civ.), e ciò perché questi contratti si perfezionano con il semplice consenso che determina immediatamente il trasferimento della proprietà.

Qualora la cosa sia determinata solo nel genere, l’acquirente non è liberato se l’alienante ha fatto la consegna, o se la cosa è stata individuata; l’acquirente è però liberato, se il trasferimento era sottoposto a condizione sospensiva e l’impossibilità è sopravvenuta prima che si verificasse la condizione (art. 1465 e. ultimo cod. civ.).

Anche per la risoluzione per impossibilità sopravvenuta vale la regola che nel contratto (plurilaterale) l’impossibilità della prestazione di una delle parti non comporta scioglimento del contratto rispetto alle altre a meno che la prestazione non fosse essenziale (art. 1466 cod. civ.).

Nell’impossibilità sopravvenuta, il creditore non ha alcun interesse a mantenere in vita il contratto, in quanto non ha la possibilità di chiedere l’adempimento, essendo ormai la prestazione divenuta impossibile.

Per questi motivi il debitore avrà sempre interesse a dimostrare di non avere colpa e che la mancata realizzazione dell’interesse creditorio è dovuta non a fatto a lui imputabile, a sua negligenza o mancanza di volontà, ma a una causa estranea, come il caso fortuito o di forza maggiore.

Nei contratti a esecuzione continuata o periodica e nei contratti a esecuzione differita è possibile che con il passar del tempo una delle prestazioni diventi troppo gravosa per la parte che l’ha assunta; è pertanto opportuno che la parte più onerata abbia la possibilità di liberarsi chiedendo la risoluzione.

La risoluzione non può essere chiesta se l’onerosità rientra nell’alea normale del contratto e neppure se il contratto, di per sé, è aleatorio: non vi sarebbe ragione, in questi casi, di tutelare la parte istante (artt. 1467 e 1469 cod. civ.).

Gli eventi che rendono più onerosa una delle prestazioni devono essere straordinarie imprevedibili (tali che le parti non avrebbero potuto teneme conto nella conclusione del contratto) e anormali.

Essi devono essere tali che ne rimanga alterata l’originaria fisionomia del contratto, l’economia dell’affare. In termini tradizionali si dice che viene meno la situazione originariamente voluta dalle parti (clausola rebus sicstantibus: se e in quanto restino così le cose).

Se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione, o una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurre il contratto a equità (art. 1468 cod. civ.).

Anche nei contratti bilaterali o plurilaterali la parte nei cui confronti è chiesta la risoluzione può offrire di modificare equamente le condizioni del contratto (art. 1467 cod. civ.).

Nel caso in cui gli eventi siano di per sé prevedibili, ma le parti non li abbiano previsti, per stabilire se si possa risolvere il contratto, si può applicare la teoria della presupposizione.

L’indagine sull’esistenza della presupposizione si esaurisce sul piano dell’interpretazione del contratto. Se la circostanza presupposta viene meno durante l’esecuzione del contratto, si può fare luogo alla risoluzione; se invece viene meno già prima della conclusione del contratto, il contratto è nullo.

La risoluzione del contratto ha effetto retroattivo tra le parti e non pregiudica i diritti acquistati dai terzi (art. 1458 cod. civ.); la retroattività della risoluzione è quindi meramente obbligatoria.

Per i contratti a esecuzione istantanea e a prestazioni corrispettive la risoluzione ha un duplice effetto: libera le parti per le prestazioni non ancora eseguite solo dal momento in cui è intervenuta la sentenza di risoluzione e impone loro di restituire quanto hanno avuto dal momento in cui si è concluso il contratto, comportando l’eliminazione di tutte le conseguenze derivanti dall’esecuzione totale o parziale del contratto.

Per contro, nei contratti a esecuzione continua o periodica, la risoluzione non dispiega i suoi effetti per le prestazioni già eseguite.

Capitale e valore assicurato in polizza

domenica 20 luglio 2008

Uno degli elementi in base ai quali viene calcolato il premio di una qualsiasi polizza assicurativa è l’entità della somma assicurata, un elemento che, però, è importante nel contratto di assicurazione anche per altri motivi.

In generale si può dire che la somma assicurata costituisce l’esposizione massima, ovvero l’importo massimo che l’assicuratore può essere tenuto a sborsare, tant’è che generalmente viene appunto detta massimale; in caso di sinistro, quindi, l’assicuratore non potrà mai essere obbligato a pagare una somma superiore al massimale.

Ciò non significa, però, che la somma assicurata coincida sempre con quella che dovrà essere pagata in caso di sinistro. È, questo, uno degli aspetti su cui più spesso nascono contrasti fra assicurato e assicuratore ed è per questo motivo che merita particolare attenzione.

Quando per esempio si assicura un’auto appena acquistata contro il furto, la somma assicurata coincide di solito con quella spesa per acquistarla, che a sua volta coincide anche con il valore di mercato dell’auto.

Nel corso del periodo di validità della polizza, però, il rapporto fra questi tre elementi (somma assicurata, costo e valore di mercato) cambia: se da un lato, infatti, la somma da spendere per acquistare la stessa auto aumenta col passare del tempo, dall’altro, invece, diminuisce il valore di quella già acquistata e usata, mentre la somma assicurata può rimanere la stessa, oppure diminuire.

In ogni caso, la combinazione fra questi tre elementi influisce in modo determinante sulla cifra che verrà corrisposta dall’assicuratore in caso di sinistro, nel modo che andremo a vedere.

Uno stesso bene ha, da un punto di vista assicurativo, tre valori, uno diverso dall’altro: un valore al momento della stipula del contratto (valore assicurabile o iniziale), un valore nell’attimo che precede il sinistro (valore finale) e infine un valore dopo il sinistro (valore residuo).

Il valore risarcibile del danno è il valore finale meno il valore residuo. lpotizziamo, quindi, che un’auto, acquistata nel gennaio del 2007 al costo di 16.000,00 euro e contemporaneamente assicurata per la medesima cifra venga rubata nell’ottobre dello stesso anno e ritrovata con danni per 14.000,00 euro nel novembre successivo. Nel frattempo il valore di mercato dell’auto, che è stata usata, anche se per poco, è diminuito a 13.000,00 euro; il relitto dell’auto, poi, a prezzo di rottame, viene valutato 500,00 euro.

Il danno risarcibile non sarà di 14.000,00 euro, bensì il risultato del seguente calcolo: 13.000,00 (valore al momento del sinistro) — 500,00 (valore dopo il sinistro) = 12.500,00 euro.

Il principio fondamentale in tema di assicurazione contro i danni, stabilito dall’art. 1908 del Codice Civile, è che nell’accertare l’entità del danno non si può attribuire alle cose danneggiate un valore superiore a quello che le cose avevano al momento del sinistro.

Quindi, ricollegandoci all’esempio precedente, siccome il valore dell’auto al momento del sinistro era di Euro 13.000,00, l’assicurato ai sensi di legge non aveva diritto a incassare un indennizzo superiore a questa cifra, anche se i danni effettivamente riportati dalla sua auto erano di entità maggiore.

Non sempre, tuttavia, è facile attribuire un valore al bene da assicurare o danneggiato, come nel caso di un’opera d’arte o di un mobile di antiquariato; in questi casi è possibile stabilirlo al momento della stipula del contratto mediante la cosiddetta stima, che è una valutazione scritta dell’oggetto da assicurare fatta da un esperto, che diventa parte della polizza e alla quale si farà riferimento in caso di sinistro.

Nelle assicurazioni che hanno per oggetto la persona, invece, essendo impossibile determinare un valore reale, la somma da assicurare viene stabilita in base all’interesse del soggetto.

Ottenere un prestito da una polizza vita

domenica 20 luglio 2008

Se avete stipulato un’assicurazione del ramo vita e vi servono soldi in prestito, potete chiedere alla vostra compagnia di anticiparvi parte del denaro che comunque vi sarà dovuto alla scadenza del contratto. Non sempre questa operazione è però vantaggiosa.

Chi ha stipulato una polizza del ramo vita può ottenere dalla sua assicurazione un anticipo di denaro su somme a cui, prima o poi, avrà diritto.

Non tutte le polizze danno però la possibilità di chiedere l’anticipo; per godere di questa opportunità occorre aver sottoscritto una tra le seguenti tipologie di polizza:

— polizza di risparmio con controassicurazione: al beneficiario viene pagato un capitale (o rendita) a una certa data; l’anticipo è possibile purché in caso di morte sia prevista almeno la restituzione dei premi agli eredi;

— polizza mista: il beneficiario riceve rendita o capitale a una certa data; se muore prima di quella scadenza, si pagano gli eredi;

—polizza a vita intera: è un contratto raro (di solito queste assicurazioni hanno una durata limitata: 10 o 20 anni); prevede il pagamento di rendita o capitale agli eredi soltanto alla morte del beneficiario, in qualunque momento questa capiti.

L’anticipo sulle polizze si può ottenere in modo più semplice rispetto ai prestiti delle finanziarie e delle banche. Basta chiedere il denaro in agenzia, dove vi sarà fatto firmare un modulo.

Dato che viene anticipato denaro del beneficiario della polizza, non serve fornire garanzie, perché l’assicurazione non corre alcun rischio. La garanzia è infatti già rappresentata dal capitale che l’assicurazione dovrà versare.

Tra la richiesta e la disponibilità effettiva del denaro possono passare anche 30 giorni. Questo modo di ottenere liquidità va dunque preso in considerazione solo se non si hanno particolari urgenze.

La quantità di denaro ottenibile è al massimo pari al valore di riscatto lordo, cioè a quanto darebbe l’assicurazione se venisse chiuso il contratto in quella data.

Il valore di riscatto da considerare è in genere quello dell’ultima rivalutazione annuale avvenuta. In altre parole, se chiedete l’anticipo a novembre, vi si concede ciò che vi si concedeva al gennaio dello stesso anno: il riscatto maturato durante l’anno non conta.

Alcune compagnie non concedono l’intero valore del riscatto, ma una percentuale (di solito l’80 o il 90%). Questa è però solo la cifra di facciata: per calcolare quello che davvero ci si ritrova in tasca bisogna infatti detrarre la prima rata di interessi per il rimborso che per lo più è annua, ed eventuali spese per l’ottenimento dell’anticipo, come avviene per i prestiti delle banche e delle finanziarie.

L’assicurato paga gli interessi sull’anticipo perché il capitale che la compagnia gli sta gestendo continua a rivalutarsi: in pratica, ricade su di lui il costo della rivalutazione di quella parte del suo capitale che gli è stata anticipata e che quindi, non essendo più gestita dalla compagnia, non si rivaluta più automaticamente.

Gli interessi sono spesso versati insieme al premio, ma su quietanza separata, per evitare di pagare anche su questi ultimi l’imposta che grava sul premio.

In alternativa possono anche essere tolti dal capitale a scadenza. Naturalmente gli interessi sono dovuti solo per la parte di anticipo non ancora restituita.

Un esempio: l’anticipo ammonta a 2000 euro e il tasso d’interesse è il 5%; ogni anno l’assicurato paga un premio aumentato di 100 euro (il 5% di 2000 euro), pari agli interessi.

Se in seguito si restituisce metà dell’anticipo, bisognerà versare, da quel momento in poi, metà degli interessi precedenti (50 euro).

Gli interessi non sono fissi, come per i piccoli prestiti tradizionali, ma variano annualmente secondo il rendimento della polizza.

Se l’anticipo viene restituito, il capitale destinato all’assicurato non viene minimamente intaccato e continua a rivalutarsi come prima. Gli interessi si pagano proprio per questo, cioè per riempire il vuoto nella rivalutazione lasciato dalla parte di capitale che è stata anticipata. In questo modo di fatto si rivaluta l’intero capitale assicurato.

La richiesta di un anticipo non intacca il corso della polizza. Il cliente continua a pagare normalmente i premi pattuiti.

Per restituire l’anticipo ci sono due modi.

1. Prima della scadenza, quando vuole l’assicurato: si può pagare direttamente agli uffici dell’agenzia o versare il dovuto sul relativo conto corrente o su quello della compagnia.

2. Alla scadenza: in questo caso l’importo dell’anticipo viene detratto dal capitale (o dalla rendita) che spetta all’assicurato. Fino ad allora quest’ultimo deve pagare gli interessi sulla somma avuta.

Non esiste un minimo di durata dell’anticipo e il massimo è fissato dalla data di scadenza della polizza.

Formazione del prezzo di una azione

domenica 20 luglio 2008

Valore nominale e prezzo di un’azione non sono la stessa cosa. Mentre il primo esprime la parte di capitale sociale che l’azione rappresenta, il secondo è la quantità di moneta necessaria per comprare o vendere un’azione. Il valore nominale, in genere, rimane sempre lo stesso. Il prezzo, al contrario, è variabile, poiché dipende dalla domanda e dall’offerta.

Se in Borsa un titolo è molto richiesto, se cioè il numero degli ordini di acquisto è superiore a quello degli ordini di vendita, il suo prezzo cresce. Viceversa, se l’offerta di azioni è superiore alla domanda (ci sono più ordini di vendita rispetto a quelli di acquisto), allora il prezzo scende.

Domanda e offerta di titoli, a loro volta, dipendono da una serie di fattori collegabili, da un lato, allo “stato di salute” delle aziende e, dall’altro, all’andamento dell’economia.

Poiché un’azione rappresenta una piccola parte della proprietà di una società, il suo prezzo dipende dalla “ricchezza” dell’azienda e dalla sua capacità di produrre profitti. A parità di altre condizioni, più elevati sono gli utili generati, e più velocemente crescono, più è probabile che la società distribuisca dividendi di importi elevati.

Le prospettive di guadagno per gli azionisti, di conseguenza, sono alte, e rendono conveniente l’acquisto delle azioni della società, stimolando così la domanda.

Viceversa, se l’impresa è in perdita o ha utili in calo, la domanda delle sue azioni diminuisce e aumenta invece l’offerta.

Anche l’aspetto patrimoniale di una società influisce sulla domanda e l’offerta di titoli. Se l’indebitamento dell’azienda non è elevato, e se i suoi investimenti hanno interessanti prospettive, è probabile che molti investitori si interessino alle sue azioni.

Il prezzo di queste ultime, quindi, è destinato a salire. Nel caso contrario, invece (elevato indebitamento e investimenti poco interessanti), l’offerta si farà più insistente e il prezzo delle azioni scenderà.

Per tutte le società le possibilità di produrre utili dipendono dal contesto economico circostante. Se l’economia ha buone prospettive di sviluppo, allora anche le aziende cresceranno. Viceversa, se sul mondo delle imprese incombe il pericolo di un rallentamento della crescita o addirittura di una recessione, allora diventa più difficile produrre utili e distribuire dividendi.

La domanda e l’offerta di azioni, quindi, dipendono anche dalla situazione dell’economia. Se sulle aziende splende il sole della crescita economica, aumenta l’interesse degli investitori per le azioni. Al contrario, se sul futuro dell’economia si va addensando qualche nube, il pubblico abbandona le azioni per approdare verso lidi più sicuri.

In campo finanziario, titoli di Stato e obbligazioni rappresentano un rifugio per chi voglia mettersi al riparo dai rischi di una caduta dei prezzi delle azioni. Essi, infatti, garantiscono all’investitore il pagamento degli interessi in ogni caso.

In teoria, e spesso nella pratica, il rendimento che offrono questi titoli è minore di quello delle azioni, ma in compenso non esistono grossi rischi di caduta dei prezzi e di andamento altalenante della remunerazione.

I tassi di interesse sono un altro importante elemento che influenza la Borsa.

Titoli di Stato e obbligazioni, infatti, sono “concorrenti” delle azioni. Se aumentano i tassi di interesse (e quindi il rendimento di obbligazioni e titoli di Stato), a parità di altre condizioni l’investitore giudicherà meno attraenti le azioni, e si rivolgerà agli altri titoli.

Inoltre, l’aumento dei tassi incide negativamente sui bilanci delle società, direttamente aumentando gli oneri finanziari e indirettamente frenando la crescita dell’economia. Il risultato è un dividendo più basso.

Calcolo valore futuro con tassi variabili

sabato 19 luglio 2008

Fino a qui abbiamo sempre dato per scontato che il tasso di interesse fosse costante per tutta la durata del prestito o dell’investimento. Ma che succede se invece, come del resto accade più spesso in realtà, il tasso non è costante?

A quale formula di Excel occorre fare riferimento per esempio per calcolare il montante di un prestito o il valore futuro di un qualsiasi investimento finanziario?

Partiamo subito con un esempio concreto. Supponiamo di avere investito un capitale iniziale di 1.000.000 di Euro per 8 anni ai seguenti tassi semestrali: 4% per i primi 2 anni, 3,75% per i successivi 9 mesi, 3,6 % per un anno e mezzo e 3% per il rimanente tempo (3 anni e 3 mesi). Quale sarà il montante o valore futuro dell’investimento?

Per risolvere questo problema abbiamo 3 possibilità.

Prima possibilità

Riportiamo su un foglio di Excel i 16 semestri su altrettante righe e per ciascuno di essi riportiamo il tasso semestrale. Il problema si presenta al sesto ed al nono semestre in quanto il tasso non è costante all’interno del semestre. Siccome però cambia esattamente dopo i primi 3 mesi in entrambi i casi, basta prendere la semisomma dei 2 tassi contigui.

Quindi per il sesto semestre abbiamo considerato (3,75% + 3,60%) / 2 = 3,68% mentre per il nono (3,60% + 3,00%) / 2 = 3,30%

A questo punto basta inserire in C19 il capitale iniziale, cioè 1.000.000 di Euro e in C21 la formula:

=VALORE.FUT.CAPITALE (Capitale; Piano_interessi)

=VALORE.FUT.CAPITALE (1000000;B2:B17)

Il risultato è Euro 1.715.837 come si vede in figura 1. E’ molto importante riportare correttamente i tassi secondo il loro periodo di capitalizzazione, quindi occorre che il Piano_interessi sia un intervallo di celle ampio almeno quanto il numero dei periodi (in questo caso 16 semestri, cioè 8 anni)

Seconda possibilità

Possiamo usare i logaritmi per determinare immediatamente il montante, senza bisogno di determinare i tassi effettivi di ciascun semestre. L’espressione matematica che permette di determinare il montante M è la seguente:

M = 1.000.000 x (1,04)4 x (1,0375)3/2 x (1,0360)3 x (1,03)15/2

Applicando a questa espressione il calcolo dei logaritmi otteniamo:

Quindi risalendo dal logaritmo al numero M = 10^6,2344738 = 1.715.829 (vedi figura 2). Il risultato è praticamente lo stesso di quello calcolato con la funzione VAL.FUT.CAPITALE.

Per effettuare il calcolo dei logaritmi con la calcolatrice di windows vedi anche questo post.

Terza possibilità

La terza possibilità è la prova del nove e consiste nel riportare su di un altro foglio di Excel il piano investimenti come si vede in figura 3. Per ciascuna riga viene calcolato separatamente l’interesse (composto) maturato ad ogni data di variazione del tasso semestrale.

Da questo link potete scaricare la cartella di esempio di Excel con i dati relativi a questo esempio.

Logaritmi con la calcolatrice di windows

sabato 19 luglio 2008

Avviate il programma di utilità di windows Calcolatrice (Avvio / Programmi / Accessori / Calcolatrice) in modalità scientifica (Visualizza / Scientifica).

Vogliamo mostrare come risolvere una espressione con l’uso dei logaritmi. Per esempio calcolare il logaritmo dell’espressione:

equivale a trasformarla nella forma seguente:

Inseriamo nella calcolatrice di windows dapprima il numero di cui vogliamo calcolare il logaritmo, che nel nostro caso è 1,0375, quindi facciamo clic sul pulsante log cerchiato in figura:

 

Il risultato parziale sarà 0,015988 ecc. Ora facciamo clic sul pulsante * segno di moltiplicazione (che equivale a x) quindi inseriamo 1,5.

 

A questo punto basterà fare clic sul pulsante = ed avremo il risultato finale

Che è 0,023982 ecc.

Quindi, ricapitolando:

1,5 x Log 1,0375 = 1,5 x 0,015988 = 0,023982

Il pulsante Log indica il Logaritmo in base 10, mentre il pulsante ln va utilizzato quando si vuole calcolare il logaritmo naturale o in base 2,718281 di un qualsiasi numero. Ricordiamo che il logaritmo di un numero è l’esponente che si deve dare alla base per avere quel numero.

Ecco perchè calcolare il logaritmo di un’espressione che contiene già degli esponenti equivale a moltiplicare gli esponenti per il logaritmo della base, come nell’esempio il logaritmo (base 10) di 1,0375 elevato a (3/2) è uguale a (1,5) x Log 1,0375.

Logaritmo in base di 10 di 1,0375 = 0,015988 significa esattamente che 0,015988 è l’esponente che bisogna dare alla base 10 per ottenere il numero 1,0375.

Infatti 10^0,015988 = 1,0375. Provata a fare anche questo calcolo con la calcolatrice di windows (vedi il post ‘Espressione esponenziale con la calcolatrice di windows‘).

Pensione integrativa e previdenza complementare

venerdì 18 luglio 2008

Il pensionamento è una fase della vita più lunga, diversa e ricca di opportunità di quanto non fosse fino a qualche tempo fa. Se ben organizzata può essere utilizzata per viaggiare, studiare, dedicarsi ad attività di volontariato, lavorare.

Ma visto che vivremo più a lungo, vi è la possibilità di ritrovarsi “scoperti”: il Paese e il sistema di previdenza pubblico non sono in grado di sostenere l’invecchiamento progressivo della popolazione e la quota percentuale di “pensione garantita” sarà assai ridotta rispetto alle attese e alle speranze.

Così da qualche anno non si parla più solo ed esclusivamente di pensione, ma dei cosiddetti tre pilastri della previdenza, dove:

– il primo è rappresentato dalla previdenza pubblica e obbligatoria, destinata a fornire una tutela di base;

– il secondo è costituito dai fondi pensione, che hanno lo scopo di garantire ai lavoratori una tutela complementare collettiva che assicuri un più elevato livello di copertura previdenziale;

– il terzo è finalizzato alla tutela integrativa individuale, rappresentata essenzialmente dalle polizze vita e dai fondi comuni.

Alla pensione pubblica e obbligatoria si può quindi decidere di affiancare la previdenza complementare, che attraverso l’adesione volontaria e collettiva alle forme pensionistiche complementari offre la possibilità di costituirsi una pensione aggiuntiva.

Aderire alla previdenza complementare non è un obbligo, ma è utile per integrare la pensione di base.

Il programma di previdenza complementare può essere realizzato scegliendo strade diverse: aderendo a un fondo pensione chiuso o negoziale, scegliendo un fondo aperto, oppure stipulando Pip o Fip.

Questi due acronimi indicano la stessa cosa: il primo, Pip, è sinonimo di piani individuali pensionistici; il secondo, Fip, sta per fondi individuali pensionistici.

In pratica si tratta di polizze previdenziali che, in seguito al pagamento periodico di premi, assicurano una determinata rendita al raggiungimento dell’età pensionabile.

È anche vero che, negli ultimi anni, le polizze previdenziali sono diventate molto più allettanti dal punto di vista fiscale rispetto alle polizze vita classiche.

Un’impennata nelle vendite che però non è indice dell’effettiva convenienza del prodotto in questa fase di transizione. Il decreto Maroni del 2005 ha dato attuazione alla riforma delle pensioni. Il decreto aumenterà la convenienza economica per chi decide di aderire alle forme pensionistiche complementari.

Una delle grandi novità è la possibilità per il lavoratore di decidere di destinare il suo trattamento di fine rapporto (Tfr) a un prodotto previdenziale a scelta tra un fondo di categoria, un fondo aperto, un fondo a piano individuale (Pip).

I Pip sono polizze vita e rappresentano una delle alternative offerte della previdenza complementare. Il lavoratore può decidere in autonomia l’ammontare del contributo annuale da versare, che può essere anche una cifra fissa.

Al termine dell’attività lavorativa e con il raggiungimento dell’età pensionabile ogni lavoratore avrà accumulato un capitale che sarà convertito in una rendita vitalizia (pensione complementare) versata mensilmente e calcolata sulla base del premio versato sul rendimento che questo ha ottenuto.

I contributi annuali, infatti, che il lavoratore versa al Pip vengono accantonati e investiti in diverso modo, a seconda della tipologia di Pip. Esistono Pip di tipo rivalutabile e Pip unit linked.

I primi possono essere definiti polizze tradizionali, perché ricalcano le modalità d’investimento classiche dei prodotti assicurativi vita: i versamenti dei sottoscrittori vengono tutti riuniti in un fondo gestito separatamente rispetto alle attività della compagnia assicurativa (e per questo si parla di gestione separata).

All’assicurato ogni anno viene riconosciuta una parte dei rendimenti degli investimenti realizzati con i soldi della gestione separata. Questo tipo di polizza consolida i risultati: il guadagno realizzato in un anno viene messo da parte e non può essere intaccato da eventuali perdite degli anni successivi.

I Pip unit linked sono invece polizze a contenuto finanziario. I soldi degli assicurati vengono investiti in fondi comuni al cui andamento è legato il rendimento dei versamenti.

Non esiste un rendimento minimo garantito e non c’è il consolidamento di quanto maturato. Tradotto significa che si può rischiare di perdere anche una parte considerevole del denaro versato con i premi. Detto questo e considerando la finalità principale del Pip (ovvero la costruzione di una pensione integrativa) sembra perlomeno rischioso rivolgersi a prodotti unit linked.

Al rischio finanziario si dovrebbe dedicare un’altra parte dei propri risparmi, non certo quella destinata a costruirsi una rendita per la vecchiaia.

Soffermandoci sulle sole polizze rivalutabili, ovvero le più consigliabili per la costruzione di una pensione integrativa, è emerso un dato comune: sono prodotti molto costosi e sui premi versati gravano una serie di costi che rendono i prodotti davvero poco consigliabili.

Esistono, insomma, svantaggi oggettivi come i costi molto alti e spesso non sempre correttamente identificabili.

Un esempio è il caricamento annuo sul premio, che può variare da un minimo del 2% a un massimo del 6% su ogni premio versato. Ma non basta. I contributi versati dai lavoratori vengono investiti in gestioni separate.

Su questi prodotti grava anche un costo di gestione compreso tra l’1% e il 3% dei risultati.

Insomma, non si può proprio dire che siano prodotti convenienti, soprattutto se si considera che, nella maggior parte dei casi, gli alti costi che il risparmiatore deve sostenere non vengono ripagati dai rendimenti sulle gestioni separate.

Negli ultimi anni, per esempio, i rendimenti applicati ai premi non hanno superato il 4,4% annuo. Un normale BTP con scadenza 30 anni ha un rendimento lordo migliore, il 4,57%.

Un lavoratore dipendente potrebbe, in alternativa, scegliere di aderire al fondo chiuso di categoria solo per il mimimo previsto dallo statuto e, in un secondo momento, decidere di aumentare il rendimento dell’investimento pensionistico aderendo a un fondo pensione aperto.

I fondi aperti sembrano avere rendimenti superiori a quelli dei fondi comuni e possono essere una scelta vantaggiosa anche per i lavoratori autonomi.

Cambio banca e costo di estinzione del conto

venerdì 18 luglio 2008

Passare da una banca a un’altra? Tra il dire e il fare ci sono di mezzo alcuni costi, in qualche caso davvero pesanti.

• Costo dì estinzione del conto corrente. In genere le spese sono variabili. Si può non pagare nulla oppure in certi casi una somma salata (fino a 100-200 Euro).

• Spese di chiusura periodica del conto e di liquidazione degli interessi. Di solito la chiusura periodica è trimestrale: in questo caso, se si estingue il Conto a trimestre iniziato si devono comunque pagare i costi di tutto il periodo.

• Canone della carta di credito. Se si lascia una banca per un’altra senza poter trasferire la carta di credito ci si trova a pagare un canone doppio: quello della vecchia carta di credito e quello della nuova.

Ciò accade per le banche che offrono carte BankAmericard, CartaSì e alcune altre. Se si cambia banca, anche se si è a metà anno, si deve cambiare anche carta e il canone pagato non viene rimborsato.

Con le altre emittenti invece la carta viene semplicemente trasferita, senza dover pagare un nuovo canone.

• Costi di trasferimento titoli. Qui le spese possono diventare notevoli.  Una buona parte delle banche fa pagare commissioni differenti in base alla tipologia di titolo.  La previsione di tetti massimi di spesa (che non sempre c’è) spesso non cambia le carte in tavola.

• Costo della custodia semestrale dei titoli. Molte banche, soprattutto quelle online, stanno eliminando i costi relativi alla custodia titoli.

• Costo legato al cambiamento dei fondi comuni. E un costo nascosto: in pratica non comporta un esborso diretto di denaro, ma un mancato guadagno connesso ai fondi comuni.

Si verifica quando la nuova banca, pur proponendo ottime condizioni generali, ha fondi comuni meno redditizi della vecchia banca.

Dato che cambiando conto si è quasi obbligati a cambiare fondi, si deve così rinunciare a parte del vecchio rendimento. L’unico sistema per evitarlo è quello di tenere il fondo immobilizzato presso la vecchia banca, destinato alla sola rivalutazione, senza effettuare operazioni di compravendita.

C’è modo di ridurre queste spese? Qualcosa si può ottenere, ma non molto. Per evitare il costo di trasferimento dei titoli, si potrebbe venderli prima della chiusura del conto, per poi ricomprarli con la nuova banca.

L’operazione è però un azzardo: c’è il rischio di forti perdite dovute all’andamento del mercato. Un aiuto può venire dalla legge sulla trasparenza bancaria, che prevede per il cliente il diritto di recedere dal vecchio contratto entro 15 giorni da quando la banca gli ha comunicato di aver peggiorato le sue condizioni.

In questo caso si recede senza penalità, cioè si può chiudere il conto senza spese di estinzione e alle condizioni precedenti alla variazione.  Per approfittare di questa oppurtunità bisogna però aspettare l’occasione buona e nel frattempo aver già attivato un nuovo conto.

Quando si cambia banca ci sono anche pratiche burocratiche da sbrigare.

• Prima di comunicare l’estinzione del conto alla vostra vecchia banca, togliete gran parte dei soldi, in modo che non rimangano bloccati dalle lungaggini burocratiche dell’estinzione.

• Prima di estinguere il vecchio conto, è preferibile aprire e collaudare il nuovo conto, in modo da avere sempre almeno un conto corrente perfettamente funzionante. Lo stesso consiglio vale per bancomat e carta di credito.

• Nel caso dobbiate vendere fondi, effettuate l’operazione con anticipo rispetto alla chiusura del conto, e con il ricavato comprate i fondi legati alla banca nuova. In caso contrario, la compravendita di quote di fondo potrebbe creare disguidi nella gestione degli accrediti/addebiti.

• Comunicate l’estinzione per iscritto, così da avere una prova della vostra decisione e della data in cui è avvenuta.

• Per il trasferimeno delle domiciliazioni, avvicinate le date di disdetta e di rinnovo, controllando sempre il corretto pagamento delle bollette, così da evitare problemi.

• Ricordatevi di comunicare al datore di lavoro il cambiamento delle vostre coordinate bancarie, per l’accredito dello stipendio.

Passare da banca a un’altra è un’operazione salata, ma anche non cambiare può rivelarsi costoso; infatti rimanere legati a un contratto poco conveniente significa non ottenere i migliori guadagni offerti da un altro conto corrente più vantaggioso.

I costi di divorzio dalla propria banca dipendono sostanzialmente dalle condizioni fissate sul contratto e dall’ammontare e dalla tipologia dei titoli che si possiedono.

Tenendo conto sia delle spese di conto corrente sia di quelle di deposito e di trasferimento titoli, il costo medio da sostenere per chiudere i conti con la vecchia banca può oltrepassare i 200 euro.

A questo importo, già di per se stesso decisamente elevato, vanno poi sommati i costi connessi a eventuali rinnovi della carta di credito, le spese di liquidazione degli interessi e la parte non sfruttata di costo semestrale del deposito titoli, oltre a tutte le imposte di bollo.

In pratica quei valori che dipendono dal momento in cui si recede e che quindi non possono essere valutati sistematicamente. Ma non è finita qui: ci sono poi tutti i “costi” burocratici che non possono essere monetizzati (perdite di tempo, pratiche da sbrigare, comunicazioni al datore di lavoro oppure a clienti, fornitori, ecc.).

Insomma, spese elevate e tempo da dedicare alle operazioni di trasferimento mettono i bastoni tra le ruote a coloro che vogliono cambiare banca.

Garantire davvero la libera concorrenza nel mercato bancario: applicando questo principio l’autorità antitrust dovrebbe imporre alle banche di eliminare le barriere che disincentivano il passaggio da una banca all’altra. Questi ostacoli sono rappresentati dalle spese di chiusura del c/c e soprattutto dai costi di trasferimento dei titoli.

Un altro costo iniquo è quello relativo ai canoni dei servizi che non si utilizzano o si utilizzano parzialmente.

Si tratta, per esempio, dei canoni del bancomat e della carta di credito. Chi dovesse cambiare banca dopo pochi giorni dal rinnovo del bancomat (che di solito avviene automaticamente), finisce per aver pagato una spesa di cui non godrà i benefici.

Dovrebbe essere un principio ovvio che un servizio si paga soltanto per quanto lo si usa: quindi le banche dovrebbero restituire al cliente quella parte di canone relativa al periodo di non utilizzo.