Risoluzione del contratto
domenica 20 luglio 2008La risoluzione del contratto equivale allo scioglimento dai vincoli del contratto. Può essere giudiziale, oppure di diritto. I presupposti della risoluzione giudiziale sono: a) l’adempimento di chi agisce in giudizio; b) l’inadempimento del contraente contro il quale si chiede la risoluzione; c) la domanda di risoluzione.
Se il creditore ha ancora interesse alla prestazione invece della risoluzione, chiederà l’adempimento del contratto al debitore; la domanda di adempimento non può essere fatta quando si è già chiesta la risoluzione, mentre si può chiedere la risoluzione quando si è già chiesto l’adempimento (art. 1453, 2° comma cod. civ.).
Il debitore, una volta presentata la domanda di risoluzione, non può più adempiere l’obbligazione (art. 1453, 3° comma cod. civ.).
Vi sono ipotesi determinate in cui non è necessario adire il tribunale per risolvere il contratto: la risoluzione opera automaticamente. Si tratta dei casi in cui vi è clausola risolutiva espressa, termine essenziale, diffida ad adempiere (risoluzione di diritto).
I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva quando una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite; in questo caso la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva (art. 1456 cod. civ.).
Il termine non sempre è essenziale, cioè necessario all’esecuzione del contratto per realizzare l’interesse creditorio, e pertanto non sempre costituisce un elemento rilevante del negozio e può essere meramente «ordinatorio», cioè indicare la scadenza dell’obbligazione, senza però comportare necessariamente l’inadempimento.
Il termine è essenziale quando lo definiscono espressamente come tale le stesse parti nel contratto, oppure risulta implicitamente dalla natura e dall’oggetto del contratto. Per evitare che il debitore esegua oltre il termine indicato, l’altra parte può intimare per iscritto all’inadempiente di adempiere in un congruo termine con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto si intenderà senz’altro risolto (ari. 1454 cod. civ.).
Il termine con il quale il creditore intima al debitore inadempiente di eseguire si chiama diffida e ha lo scopo di fissare con chiarezza la posizione delle parti nell’esecuzione del contratto; mette sull’avviso l’inadempiente che l’altra parte non è più disposta a tollerare il ritardo e che, se non esegue entro il termine indicato e assegnato (in aggiunta a quello già previsto dal contratto), il contratto si intenderà senz’altro risolto.
Il termine che è indicato nella diffida non può essere inferiore a 15 giorni; le parti però possono pattuire un periodo diverso (più o meno breve) o si possono seguire gli usi. E ovvio che il termine indicato nella diffida ha carattere essenziale.
Anche la risoluzione, come l’annullamento e la rescissione, ha effetto retroattivo: come la rescissione, e a differenza dell’annullamento, la risoluzione ha effetto solo tra le parti, e quindi la sua retroattività è meramente obbligatoria (ari. 1458 cod. civ.).
Si fanno salvi però gli effetti già prodotti dai contratti a esecuzione continuata o periodica, per i quali non si possono annullare le prestazioni già eseguite.
Nei contratti plurilaterali, l’inadempimento di una delle parti non comporta la risoluzione del contratto rispetto alle altre, a meno che la prestazione che è mancata si debba considerare, secondo le circostanze, essenziale (art. 1459 cod. civ.).
Può accadere che nel corso dell’esecuzione del contratto uno dei contraenti venga a conoscenza del dissesto dell’altro, o delle precarie condizioni in cui già si trovava prima della conclusione del contratto; in tal caso il giudice gli consente di cautelarsi, per non eseguire una prestazione di cui potrebbe anche non ricevere poi il corrispettivo: la cautela consiste nella facoltà di sospensione della prestazione (art. 1461 cod. civ.).
Le parti possono anche convenire che, nel corso dell’esecuzione, non proporranno eccezioni per evitare o ritardare la prestazione dovuta (clausola del solve et repete): tale clausola non vale per eccezioni relative a nullità, annullabilità, rescissione del contratto (art. 1462 cod. civ.).
Sono casi di risoluzione giudiziale l’inadempimento, l’impossibilità sopravvenuta e l’eccessiva onerosità.
Il codice considera l’impossibilità sopravvenuta come una delle cause di risoluzione, perché, se una delle prestazioni non si può più eseguire, l’altra parte non deve esser costretta a eseguire la propria o, se l’ha già eseguita, a veder perduto qualsiasi vantaggio dall’affare concluso; nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che è liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che ha già ricevuto (art. 1463 cod. civ.).
Il rapporto di corrispettività si salva anche se una delle prestazioni è soltanto parzialmente impossibile; in tal caso l’altra parte ha diritto a una riduzione corrispondente (art. 1464 cod. civ.).
Si prevede in questo caso anche un’ipotesi di recesso legale (art. 1464 cod. civ.): l’altra parte può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Il principio secondo il quale il perimento della cosa per una causa non imputabile al debitore lo libera dall’obbligazione (art. 1218 cod. civ.) non vale per contratti traslativi costitutivi di diritti reali.
In queste ipotesi il perimento della cosa non libera l’acquirente dall’obbligo di eseguire la controprestazione, ancorché la cosa non gli sia stata consegnata (art. 1465 cod. civ.), e ciò perché questi contratti si perfezionano con il semplice consenso che determina immediatamente il trasferimento della proprietà.
Qualora la cosa sia determinata solo nel genere, l’acquirente non è liberato se l’alienante ha fatto la consegna, o se la cosa è stata individuata; l’acquirente è però liberato, se il trasferimento era sottoposto a condizione sospensiva e l’impossibilità è sopravvenuta prima che si verificasse la condizione (art. 1465 e. ultimo cod. civ.).
Anche per la risoluzione per impossibilità sopravvenuta vale la regola che nel contratto (plurilaterale) l’impossibilità della prestazione di una delle parti non comporta scioglimento del contratto rispetto alle altre a meno che la prestazione non fosse essenziale (art. 1466 cod. civ.).
Nell’impossibilità sopravvenuta, il creditore non ha alcun interesse a mantenere in vita il contratto, in quanto non ha la possibilità di chiedere l’adempimento, essendo ormai la prestazione divenuta impossibile.
Per questi motivi il debitore avrà sempre interesse a dimostrare di non avere colpa e che la mancata realizzazione dell’interesse creditorio è dovuta non a fatto a lui imputabile, a sua negligenza o mancanza di volontà, ma a una causa estranea, come il caso fortuito o di forza maggiore.
Nei contratti a esecuzione continuata o periodica e nei contratti a esecuzione differita è possibile che con il passar del tempo una delle prestazioni diventi troppo gravosa per la parte che l’ha assunta; è pertanto opportuno che la parte più onerata abbia la possibilità di liberarsi chiedendo la risoluzione.
La risoluzione non può essere chiesta se l’onerosità rientra nell’alea normale del contratto e neppure se il contratto, di per sé, è aleatorio: non vi sarebbe ragione, in questi casi, di tutelare la parte istante (artt. 1467 e 1469 cod. civ.).
Gli eventi che rendono più onerosa una delle prestazioni devono essere straordinarie imprevedibili (tali che le parti non avrebbero potuto teneme conto nella conclusione del contratto) e anormali.
Essi devono essere tali che ne rimanga alterata l’originaria fisionomia del contratto, l’economia dell’affare. In termini tradizionali si dice che viene meno la situazione originariamente voluta dalle parti (clausola rebus sicstantibus: se e in quanto restino così le cose).
Se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione, o una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurre il contratto a equità (art. 1468 cod. civ.).
Anche nei contratti bilaterali o plurilaterali la parte nei cui confronti è chiesta la risoluzione può offrire di modificare equamente le condizioni del contratto (art. 1467 cod. civ.).
Nel caso in cui gli eventi siano di per sé prevedibili, ma le parti non li abbiano previsti, per stabilire se si possa risolvere il contratto, si può applicare la teoria della presupposizione.
L’indagine sull’esistenza della presupposizione si esaurisce sul piano dell’interpretazione del contratto. Se la circostanza presupposta viene meno durante l’esecuzione del contratto, si può fare luogo alla risoluzione; se invece viene meno già prima della conclusione del contratto, il contratto è nullo.
La risoluzione del contratto ha effetto retroattivo tra le parti e non pregiudica i diritti acquistati dai terzi (art. 1458 cod. civ.); la retroattività della risoluzione è quindi meramente obbligatoria.
Per i contratti a esecuzione istantanea e a prestazioni corrispettive la risoluzione ha un duplice effetto: libera le parti per le prestazioni non ancora eseguite solo dal momento in cui è intervenuta la sentenza di risoluzione e impone loro di restituire quanto hanno avuto dal momento in cui si è concluso il contratto, comportando l’eliminazione di tutte le conseguenze derivanti dall’esecuzione totale o parziale del contratto.
Per contro, nei contratti a esecuzione continua o periodica, la risoluzione non dispiega i suoi effetti per le prestazioni già eseguite.