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Pensione integrativa e previdenza complementare

venerdì 18 luglio 2008

Il pensionamento è una fase della vita più lunga, diversa e ricca di opportunità di quanto non fosse fino a qualche tempo fa. Se ben organizzata può essere utilizzata per viaggiare, studiare, dedicarsi ad attività di volontariato, lavorare.

Ma visto che vivremo più a lungo, vi è la possibilità di ritrovarsi “scoperti”: il Paese e il sistema di previdenza pubblico non sono in grado di sostenere l’invecchiamento progressivo della popolazione e la quota percentuale di “pensione garantita” sarà assai ridotta rispetto alle attese e alle speranze.

Così da qualche anno non si parla più solo ed esclusivamente di pensione, ma dei cosiddetti tre pilastri della previdenza, dove:

– il primo è rappresentato dalla previdenza pubblica e obbligatoria, destinata a fornire una tutela di base;

– il secondo è costituito dai fondi pensione, che hanno lo scopo di garantire ai lavoratori una tutela complementare collettiva che assicuri un più elevato livello di copertura previdenziale;

– il terzo è finalizzato alla tutela integrativa individuale, rappresentata essenzialmente dalle polizze vita e dai fondi comuni.

Alla pensione pubblica e obbligatoria si può quindi decidere di affiancare la previdenza complementare, che attraverso l’adesione volontaria e collettiva alle forme pensionistiche complementari offre la possibilità di costituirsi una pensione aggiuntiva.

Aderire alla previdenza complementare non è un obbligo, ma è utile per integrare la pensione di base.

Il programma di previdenza complementare può essere realizzato scegliendo strade diverse: aderendo a un fondo pensione chiuso o negoziale, scegliendo un fondo aperto, oppure stipulando Pip o Fip.

Questi due acronimi indicano la stessa cosa: il primo, Pip, è sinonimo di piani individuali pensionistici; il secondo, Fip, sta per fondi individuali pensionistici.

In pratica si tratta di polizze previdenziali che, in seguito al pagamento periodico di premi, assicurano una determinata rendita al raggiungimento dell’età pensionabile.

È anche vero che, negli ultimi anni, le polizze previdenziali sono diventate molto più allettanti dal punto di vista fiscale rispetto alle polizze vita classiche.

Un’impennata nelle vendite che però non è indice dell’effettiva convenienza del prodotto in questa fase di transizione. Il decreto Maroni del 2005 ha dato attuazione alla riforma delle pensioni. Il decreto aumenterà la convenienza economica per chi decide di aderire alle forme pensionistiche complementari.

Una delle grandi novità è la possibilità per il lavoratore di decidere di destinare il suo trattamento di fine rapporto (Tfr) a un prodotto previdenziale a scelta tra un fondo di categoria, un fondo aperto, un fondo a piano individuale (Pip).

I Pip sono polizze vita e rappresentano una delle alternative offerte della previdenza complementare. Il lavoratore può decidere in autonomia l’ammontare del contributo annuale da versare, che può essere anche una cifra fissa.

Al termine dell’attività lavorativa e con il raggiungimento dell’età pensionabile ogni lavoratore avrà accumulato un capitale che sarà convertito in una rendita vitalizia (pensione complementare) versata mensilmente e calcolata sulla base del premio versato sul rendimento che questo ha ottenuto.

I contributi annuali, infatti, che il lavoratore versa al Pip vengono accantonati e investiti in diverso modo, a seconda della tipologia di Pip. Esistono Pip di tipo rivalutabile e Pip unit linked.

I primi possono essere definiti polizze tradizionali, perché ricalcano le modalità d’investimento classiche dei prodotti assicurativi vita: i versamenti dei sottoscrittori vengono tutti riuniti in un fondo gestito separatamente rispetto alle attività della compagnia assicurativa (e per questo si parla di gestione separata).

All’assicurato ogni anno viene riconosciuta una parte dei rendimenti degli investimenti realizzati con i soldi della gestione separata. Questo tipo di polizza consolida i risultati: il guadagno realizzato in un anno viene messo da parte e non può essere intaccato da eventuali perdite degli anni successivi.

I Pip unit linked sono invece polizze a contenuto finanziario. I soldi degli assicurati vengono investiti in fondi comuni al cui andamento è legato il rendimento dei versamenti.

Non esiste un rendimento minimo garantito e non c’è il consolidamento di quanto maturato. Tradotto significa che si può rischiare di perdere anche una parte considerevole del denaro versato con i premi. Detto questo e considerando la finalità principale del Pip (ovvero la costruzione di una pensione integrativa) sembra perlomeno rischioso rivolgersi a prodotti unit linked.

Al rischio finanziario si dovrebbe dedicare un’altra parte dei propri risparmi, non certo quella destinata a costruirsi una rendita per la vecchiaia.

Soffermandoci sulle sole polizze rivalutabili, ovvero le più consigliabili per la costruzione di una pensione integrativa, è emerso un dato comune: sono prodotti molto costosi e sui premi versati gravano una serie di costi che rendono i prodotti davvero poco consigliabili.

Esistono, insomma, svantaggi oggettivi come i costi molto alti e spesso non sempre correttamente identificabili.

Un esempio è il caricamento annuo sul premio, che può variare da un minimo del 2% a un massimo del 6% su ogni premio versato. Ma non basta. I contributi versati dai lavoratori vengono investiti in gestioni separate.

Su questi prodotti grava anche un costo di gestione compreso tra l’1% e il 3% dei risultati.

Insomma, non si può proprio dire che siano prodotti convenienti, soprattutto se si considera che, nella maggior parte dei casi, gli alti costi che il risparmiatore deve sostenere non vengono ripagati dai rendimenti sulle gestioni separate.

Negli ultimi anni, per esempio, i rendimenti applicati ai premi non hanno superato il 4,4% annuo. Un normale BTP con scadenza 30 anni ha un rendimento lordo migliore, il 4,57%.

Un lavoratore dipendente potrebbe, in alternativa, scegliere di aderire al fondo chiuso di categoria solo per il mimimo previsto dallo statuto e, in un secondo momento, decidere di aumentare il rendimento dell’investimento pensionistico aderendo a un fondo pensione aperto.

I fondi aperti sembrano avere rendimenti superiori a quelli dei fondi comuni e possono essere una scelta vantaggiosa anche per i lavoratori autonomi.

Ripartizione e capitalizzazione previdenziale

martedì 15 luglio 2008

I moderni sistemi di previdenza sociale hanno in gran parte abbandonato i due criteri fondamentali che nel passato orientavano l’attività di prelievo e l’erogazione delle prestazioni da parte di enti previdenziali: la commisurazione dei contributi o dei premi ai rischi da coprire e l’equivalenza attuariale tra prestazioni da fornire e contributi pagati.

Come metodo di finanziamento si seguiva quello a capitalizzazione.

Anche l’Italia, dopo un progressivo allontanamento dai criteri esposti, nel 1969 ha sancito formalmente il passaggio dal modello contributivo — con cui si calcola la pensione in base all’ammontare dei contributi versati — a quello retributivo, con cui si fissa il livello di pensione in rapporto alla retribuzione percepita nell’ultima parte del periodo di attività lavorativa.

Nel contempo è stato abbandonato definitivamente il metodo a capitalizzazione per il finanziamento delle prestazioni, che consiste nell’accantonamento di risorse, attraverso contributi o premi, in modo che comunque, e in qualsiasi momento, si possano fronteggiare gli oneri connessi all’erogazione delle prestazioni.

Tale metodo è invece adottato dalle assicurazioni private. Al metodo a capitalizzazione viene contrapposto quello a ripartizione che consiste nel finanziare le prestazioni non già con la costituzione di riserve, ma con le entrate correnti.

Ne deriva che con quest’ultimo metodo il lavoratore non procede all’accumulo di risorse che poi utilizzerà al momento in cui cessa l’attività lavorativa, ma versa contributi che servono a pagare le pensioni in essere dei vecchi assicurati. Si verifica così un tipo di solidarietà tra generazioni: quella giovane sostiene quella anziana.

In Italia, il passaggio da un metodo all’altro è avvenuto in modo graduale e trova la causa fondamentale nei fenomeni inflazionistici ricorrenti nelle economie moderne. L’inflazione intacca il valore reale delle riserve proprio nei momenti in cui le esigenze di sostegno dei redditi delle categorie protette si fanno più pressanti.

Quanto più l’inflazione è elevata, tanto più distruttiva è la consumazione delle riserve; contemporaneamente cresce l’esigenza di interventi per ripristinare il potere d’acquisto delle pensioni, a loro volta ridimensionate nel potere d’acquisto dalla crescita dei prezzi.

In queste condizioni, alle maggiori spese si fa fronte con maggiori contributi, relegando le riserve a un ruolo sempre meno importante. Avviene così un trapasso graduale e ineluttabile dall’uno all’altro modo di finanziamento.

Sono in molti a ritenere che in un sistema di sicurezza sociale il metodo a ripartizione appaia più adatto a realizzare le finalità degli Stati moderni. Peraltro la differenza tra finanziamento con entrate correnti o con la costituzione di riserve è spesso irrilevante nella previdenza pubblica, dove tutte le poste vengono consolidate.

Si pensi al caso in cui le riserve sono costituite da titoli di Stato. All’ammontare dei titoli posseduti dall’istituto di previdenza fa riscontro un debito analogo da parte dello Stato.

Per far fronte alla prestazione l’istituto utilizza gli interessi pagati dallo Stato o il capitale corrispondente al valore del titolo scaduto; in ambedue i casi lo Stato deve sostenere oneri (per pagare interessi o rimborsare i titoli) equivalenti a quelli cui dovrebbe far fronte qualora il sistema fosse a ripartizione.

Se sul fronte del finanziamento per la previdenza sociale l’adozione del metodo della ripartizione appare più consona, non altrettanto può dirsi dell’abbandono del modello contributivo e della scelta del modello retributivo per il calcolo della pensione.

Infatti, l’assenza di un collegamento tra l’ammontare dei contributi versati e il livello della pensione molto frequentemente disincentiva l’assolvimento degli obblighi da parte dei contribuenti, mentre sul piano dell’equità pone seri problemi di disparità di rendimento dei contributi stessi tra coloro che hanno accelerazioni di carriera negli anni prossimi alla pensione e coloro che invece subiscono cadute di professionalità e di guadagno nella parte finale del periodo lavorativo.